Dark UX: il lato oscuro della User Experience

“La Dark UX è ovunque. È intorno a noi. Anche adesso, nel sito che stai visitando. È quello che vedi quando apri la finestra del browser, o quando accendi lo smartphone. L'avverti quando vai al lavoro, quando vai in chiesa, quando paghi le tasse. È il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità.” - semicit.

User Experience. Per spiegarla con una frase di Futurama, “quando le cose vanno per bene, nessuno sospetterà che tu abbia fatto realmente qualcosa”. Insomma, se navighiamo su un sito o un app o una qualsiasi interfaccia senza dover pensare troppo a ciò che stiamo facendo (Steve Krug dixit), vuol dire che lo UX designer ha fatto un buon lavoro.

Ma cosa succede se il vero scopo dello UXd è quello di progettare un’esperienza di navigazione per fare gli sporchi interessi di qualcun’altro? La risposta a questa domanda è la genesi del Dark UX Designer.

Ok, non credo esista una Morte Nera popolata da designer malvagi che progettano trappole per i malcapitati utenti, ma facciamo i conti con la realtà:

la Dark UX esiste ed è intorno a noi.

Anzi, lo è sempre stata e molto prima del web: con i call center delle compagnie telefoniche che elemosinavano il nostro distratto consenso per un “semplice” passaggio di offerta, o con le lettere delle compagnie elettriche – “ma sì, tanto è solo pubblicità!” – e in men che non si dica ci si ritrovava abbonati a nuovi e sconosciuti piani tariffari.

Questo ormai ci suona banale e i signori oscuri della user experience lo sanno bene. Si sono fatti più infidi, astuti e malvagi!

Secondo il suo scopritore Harry Brignull, che ha coniato il termine nel 2010,  la Dark UX segue dei dark pattern ben definiti. 12 modi per farti fare quello che non avevi intenzione di fare. Brignull parte dal presupposto che quando navighiamo non leggiamo realmente ogni singola parola, leggiamo velocemente qua e là e diamo per scontato il resto. Un’azienda che vuole gabbare l’utente, quindi, può approfittarne e costruire una pagina in modo che sembri dire qualcosa ma, di fatto, ne sta dicendo un’altra.

Vediamo quelli che ancora oggi, nel 2020, mettono alla prova la nostra pazienza.

La domanda trabocchetto (Tricky Questions)

“Ma perchè diavolo mi arrivano queste offerte?”. Se te lo sei chiesto almeno una volta la risposta è semplice: probabilmente hai dato tu stesso il consenso. Chiaramente, senza volerlo davvero. Spesso queste richieste trabocchetto si celano tra i noiosi consensi da dare quando ci si iscrive a qualcosa.

Incauto acquisto (Sneak into Basket)

Pattern  ancora presente su qualche e-commerce di servizi: arrivi al checkout e “ops! ma questo quando l’ho messo nel carrello?”. Subscription annuali o estensioni di garanzia tra gli incauti acquisti  più comuni.

Sei Stato Zuccato! (Privacy Zuckering)

Dal nome del creatore di Facebook, questo pattern è stato identificato per la prima volta agli albori del social network, attraverso le sue complesse impostazioni sulla privacy. Hai mai pubblicamente condiviso più informazioni di quante ne volessi davvero condividere? Beh, allora sei stato Zuccato!

“C’è tempo solo fino a domenica!” (Fear of missing out)

Uno dei più famosi. Il sito comunica con l’utente mettendogli urgenza in modo da fargli prendere una decisione affrettata e impulsiva. Questa offerta scade tra 3, 2, 1!

Ok, il prezzo è giusto (Price Comparison prevention)

In questo pattern il designer rende la comparazione del prezzo di due articoli difficile di proposito, in modo che l’acquirente non riesca a prendere una decisione ponderata.Questo viene messo in atto generalmente nei bundle di più prodotti insieme, dove il prezzo del singolo è di difficile reperimento.

Il prestigiatore (Misdirection)

Uno dei pattern più comuni. Il design attira la tua attenzione lontano dalle scelte che, a rigor di logica, faresti per non dover incappare in acquisti spiacevoli o subscription involontarie e rendendo quest’ultime meno visibili.

Guarda qua, clicca qui, spunta la casellina, clicca giù e oplà! Sei schiavo di Matrix, amico.

Il prezzo nascosto (Hidden cost)

Il titolo eloquente introduce uno dei pattern più odiosi: l’acquisto procede fino al checkout dove l’utente scopre le spese aggiuntive di cui non si era mai fatta menzione.

Benvenuti al Dream Motel (Roach Motel)

Sebbene il design del sito possa sembrare semplice e intuitivo, alla fine ti ritrovi in una situazione dalla quale è impossibile uscire. Nello specifico, è il caso di alcuni siti che, per eseguire l’azione che volevi, richiedono una veloce iscrizione al sito o alla newsletter. Tutto bene fino a quando ti rendi conto di ricevere tonnellate di e-mail dal sito in questione, anche dopo diversi mesi. Come dici? Hai fatto ciò che dovevi e vuoi cancellare la tua subscription? Ah, non credo proprio.

Conclusioni

Due sono le ragioni per cui la Dark UX potrebbe non avere più motivo di esistere nei prossimi anni:

gli utenti sono sempre più responsabili, soprattutto quando si parla di acquisti o dati personali, e soprattutto, le aziende, sul web, cercano sempre più di costruire un rapporto di fiducia con gli utenti.

Ed è quest’ultimo aspetto a essere cruciale.

“Find a way to help the vulnerable around you. If you have privilege, use it for good.” – Steve Fisher

Una volta finita la prima età dell’oro di internet dove la colpa di azioni non ponderate era unicamente ed erroneamente attribuita alla sbadataggine degli utenti, i brand oggi sanno che non possono permettersi di tradire la fiducia del consumatore. Negli ultimi anni il design sta venendo sempre più incontro alle necessità delle persone, aiutandole a migliorare (anche solo momentaneamente) la propria vita. Esiste la moralità del designer? Ormai si, visto il ruolo ormai fondamentale che la UX sta avendo nella progettazione delle esperienze. Ed è una moralità che va di pari passo con il modello che alcuni brand stanno adottando nei confronti dei loro consumatori: conoscersi e farsi conoscere, creare coinvolgimento e mettere i suoi utenti nelle condizioni di effettuare la scelta più consapevole possibile.

Questa è l’unica experience che conta.

Autore:

Gabriele Rubbi