Lo scorso 29 dicembre ci ha lasciato all’età di 81 anni una delle menti creative più influenti e innovative del nostro tempo, la designer più ribelle, rivoluzionaria e anarchica della storia, la regina indiscussa del punk (anche se in realtà detestava essere chiamata così).
Sin dall’inizio della sua carriera Westwood ha usato il suo estro creativo per shockare l’opinione pubblica e ispirare il cambiamento. Una mente illuminata, refrattaria alle convenzioni e animata costantemente dal desiderio di sovvertirle. Una donna che ha saputo davvero rompere gli schemi e dare alla sua firma uno stile unico e riconoscibile, influenzando intere generazioni di designer.
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Vivienne Westwood è stata una vera pioniera in moltissimi campi, ideando creazioni controverse e spesso incomprese dai contemporanei per via del loro spirito sovversivo. Come quando si occupava di curare l’immagine dei Sex Pistols di Sid Vicious, firmando, nel 1977 – anno del giubileo d’argento della regina Elisabetta II – la mitica “God Save the Queen”: la t-shirt che, unendo moda e musica, divenne simbolo visivo della sottocultura Punk. Presente su Google Art e esposta al MET di New York, l’iconica maglietta raffigura Queen Elisabeth con una spilla su naso e bocca, incorniciata dal testo della canzone dei Sex Pistols e dal logo della band. Piuttosto controcorrente no?
Vi consigliamo su questo tema la recente la serie diretta da Danny Boyle – regista di capolavori come Trainspotting, The Beach, The Millionaire, Steve Jobs – che, mentre racconta la nascita dei Sex Pistols vista dagli occhi del suo chitarrista Steve Jones, mostra molto bene anche lo stretto rapporto tessuto dalla la stilista con il punk.
Nonostante nel tempo la posizione del brand Vivienne Westwood sul mercato si sia evoluta, l’unicità e l’identità del marchio sono rimaste le stesse. Come del resto è rimasto immutato anche il profondo legame che lega la stilista al patrimonio artistico e culturale della Gran Bretagna, paese dov’è nata e cresciuta: una tradizione ricchissima di cui ha fatto tesoro ricorrendo all’utilizzo di tessuti come i tartan scozzesi, l’Harris Tweed e i lini irlandesi.
Westwood è perciò sempre attenta – ma anche molto critica – nei confronti della situazione politica nazionale, e ha fatto spesso sentire il suo dissenso attraverso azioni di protesta, come quando nel 1989 si fa fotografare sulla copertina del mensile di moda per l’alta società Tatler travestita da Margaret Thatcher con il copy “This woman was once a punk”.
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L’altro elemento dell’identità di Vivienne Westwood che è rimasto stabile nel corso degli anni è l’iconico Orb, nato alla fine degli anni 80. Il logo combina l’iconografia reale britannica con il simbolismo spaziale, riassumendo in un unico oggetto l’anima dello stile di Westwood: esplorare il presente guardando al futuro, con le radici ben salde nel passato. Proprio come il suo logo in bilico tra passato, presente e futuro, in molte collezioni che sfilano in passerella la vediamo reinterpretare gli stilemi tipici del Settecento e del Barocco. Come quando reiventò il corsetto, facendogli assumere un’identità tutta nuova.
Introdotto per la prima volta nella collezione del 1987 “Harris Tweed” è da allora diventato iconico: il corsetto di Westwood infatti perde il carattere oppressivo, stringente, diventando invece un simbolo di liberazione femminile, uno strumento dato alle donne per rappresentare la propria sicurezza, per valorizzare le proprie forme, affermando la propria forza. Il corsetto diventa un pezzo imprescindibile nell’estetica di Westwood, che lo include in molte delle sue collezioni, fino a creare, nel 1990, una delle versioni più famose raffigurante il quadro del 1743 Daphnis and Chloe, Shepherd Watching a Sleeping Shepherdess del pittore francese François Boucher.
Consapevole del proprio potere comunicativo, per la stilista britannica l’atto creativo non è mai stato disgiunto dall’impegno per cause importanti, usando spesso le sue collezioni e le sue passerelle come piattaforma per mandare messaggi ben precisi. Per Vivienne Westwood il tessuto è la tela sulla quale disegnare i suoi slogan, lo strumento di comunicazione più immediato con il quale raggiungere il pubblico.
In più occasioni ha espresso a gran voce il suo sostegno a cause come il movimento per il diritto al voto delle donne e la libertà di espressione, per l’indipendenza della Scozia, i diritti LGBT. Nel 2015 inaugura la collezione Unisex, progenie del moderno genderless e lo scorso settembre firma le uniformi gender neutral della compagnia aerea britannica Virgin Atlantic. Nel 2013 disegna il logo di Green Peace e, da sempre, ha supportato Amnesty International e War Child. Nel 2014 si spoglia nuda per uno spot ironico e divertente della Peta per promuovere il vegetarianesimo
È soprattutto il tema più legato alla sua forma espressiva che fino alla fine l’ha vista combattere per il cambiamento: la moda etica e sostenibile. Il fenomeno per fortuna oggi è in forte espansione anche tra i consumatori: secondo una ricerca condotta da Pwc infatti si stima che il mercato mondiale della moda green raggiungerà oltre 6 miliardi di euro nel 2023, oltre 8 miliardi nel 2025 e per superare i 12 miliardi nel 2030, con una crescita pari al +139% in circa 10 anni. Ed era anche ora, aggiungeremmo.
Con la sua acuta intelligenza e sensibilità, Westwood ha colto già molto tempo fa le contraddizioni e le storture di un business che a parole promuove l’attenzione alla qualità e alla sostenibilità, ma nel concreto non fa altro che incentivare acquisti compulsivi – vedi ad esempio il sistema dei resi gratuiti- .
Nel discorso “Letter to the Earth”, registrato al Globe Theatre di Londra nel 2021 in occasione della Cop 26, la stilista arriva a chiedere “comprate meno, comprate meglio”, confermandosi, all’età di 80 anni, una delle voci più convinte che si sono fatte sentire forti e ben distinte nella lotta contro il cambiamento climatico. D’altra parte, basta scrollare la pagina “sostenibilità” del sito internet del brand per capire quanto questo tema sia centrale nell’industria da lei creata:
“Vivienne Westwood is one of the last independent global fashion brands in the world. We exist to do more than just produce clothes and accessories.”
Chiudiamo con una citazione tratta dal discorso “No man’s land” pronunciato dalla stilista britannica in occasione della cerimonia per il premio alla carriera che le è stato attribuito da Florence Biennale, mostra di arte contemporanea e design, nell’ottobre scorso:
“Niente è connesso, se guardiamo alle notizie che riceviamo. E invece tutto è connesso”
L’esempio della creativa inglese senza dubbio ci apre la mente, lasciandoci in eredità il monito di guardare al mondo sempre con senso critico, mettendo in pratica una forte e costante spinta al cambiamento con l’obiettivo di costruire un futuro migliore.